Fare informatica negli anni 70

Inviato da marina.grattapaglia il

Il 7 maggio del 1975, studentessa del primo anno di informatica, anzi "Scienza dell'informazione" (e a quei tempi molti credevano ancora che fosse la facoltà per aspiranti giornalisti!), entravo per la prima volta nel centro di calcolo dell'Università di Torino. 
Oltre a seguire i corsi di analisi, algebra, geometria e fisica, pieni di formule (e spazi vettoriali, erano dappertutto, un'ossessione, e devo ancora capire adesso cosa sono!), seguivo ovviamente il corso di "macchine", che forniva i concetti di base dell'informatica: logica, numerazione binaria, algoritimi, flowchart... molto interessante e nuovo per me, ma ancora molto teorico: ora si trattava di mettere in pratica tutto ciò con le esercitazioni, ossia preparare programmini semplici nei linguaggi che stavamo imparando (il rustico assembler e il più elegante e concettuale Algol) e farli "girare" su un elaboratore, che era appunto a disposizione nel centro di calcolo in via San Massimo.
E così, quel giorno, entrai in quello che sembrava un negozio con vetrina spoglia, scesi una scaletta e mi trovai nello scantinato, che era diviso in due sale accessibili a noi studenti, e in altri locali a noi preclusi.
Nella prima sala lungo la parete a sinistra c'erano tre o quattro postazioni occupate da ragazzi che pestavano sui tasti di quelle che parevano macchine da scrivere ma più ingombranti; al loro fianco altri in piedi parevano aspettare.
 Quasi al centro della sala c'erano due macchine rumorose, tipo grosse lavatrici. Una era la stampante, che sputava continuamente e rumorosamente tabulati, alcuni poi riposti su un tavolo vicino. Davanti all'altra invece c'era una fila di persone, ognuno con pacchettini di cartoncini colorati più o meno spessi (alcuni tenuti da elastici perchè erano vere e proprie pile barcollanti); chi arrivava alla macchina caricava con cautela la "lavatrice" con i suoi cartoncini che venivano risucchiati tipo banconote alle casse automatiche.
Sulla destra si apriva l'altra stanza, tutta rivestita di scaffalature metalliche contenenti pile e pile di scatole di cartone, un po' più lunghe di scatole da scarpe, etichettate con nomi vari. E in mezzo lunghi tavoli, a cui sedevano molti giovani che, con aria meditabonda e a volte afflitta, consultavano i tabulati e prendevano appunti... E, in questa stanza, aleggiava un profumo, quasi di vaniglia...
Questo è ciò che mi colpì al primo ingresso in un ambiente che non conoscevo per nulla. E cominciai a capire che un conto è la teoria, un altro la pratica...Intanto mi resi conto che non avevo capito bene come si concretizzasse "l'input" a un elaboratore... anche se sapevo disegnarlo sui flowchart, con una figura tipo rettangolo smussato ad un angolo. 
Imparai lì che, una volta scritte su carta le istruzioni del programma, dovevo munirmi di schede nuove (quei cartoncini dai colori pastello al profumo di vaniglia che riempivano la stanza a fianco), appropriarmi di una delle postazioni a sinistra (previa magari paziente coda per aspettare il mio turno), e digitare le istruzioni, una riga per scheda, in modo che le schede venissero perforate opportunamente, una colonna per ogni carattere (stampato in cima alla scheda) e se sbagliavo a digitare dovevo usare una nuova scheda. Finito il lavoro di perforazione, lasciavo la postazione a chi attendeva dopo di me, e andavo a controllare di aver scritto tutto giusto... E se per caso la macchina perforatrice aveva esaurito l'inchiostro e non vedevo quanto avevo digitato...beh o confidavo nella buona sorte o rifacevo il giro!
Col pacchettino di schede finalmente pronte (in genere molto smilzo, guardavo con reverente ammirazione chi aveva pacchi di schede altissimi), altra fila, stavolta al lettore di schede (la lavatrice a fianco della stampante),  sperando vivamente che non accadessero i due incidenti più comuni: la caduta di mano delle schede (e relativo miscelamento del contenuto, cosa assolutamente drammatica, dovendo essere le istruzioni in un ordine ben preciso), e l'inceppamento nell'ingordo lettore... nel qual caso bisognava chiedere assistenza interpellando gli esperti della "sala macchine", ossia quelli che stavano "di là", nei locali a noi  proibiti, ma che intravedevamo, dietro la stampante, dove c'erano gli elaboratori veri e propri.
Una volta fatte digerire le schede al lettore, iniziava l'ansiosa attesa della elaborazione, conclusa quando sulla stampante compariva in grande il nome che avevamo scelto come identificativo utente, scritto sulla scheda in testa. E poi... se tutto filava liscio, la stampante sciorinava le pagine del tabulato coi risultati attesi, altrimenti (9 volte su 10 o anche più) seguivano pagine di messaggi in inglese e abbreviazioni minacciose, indicanti, fatalmente, gli errori veniali o gravissimi che avevo commesso...fino al classico ABEND (Abnormal End) che stroncava ogni speranza e concludeva ignominiosamente il tentativo di dominare il cervellone... Naturalmente ciò accadeva sotto gli occhi di tutti quelli che, come me, attendevano ansiosi alla stampante l'uscita dei loro elaborati! E, umiliata e mortificata, raccoglievo il mio tabulato, sotto la stampante, e mi ritiravo nella stanza a fianco, per meditare sugli errori e capire come rimediare, come la maggior parte degli altri attorno al tavolo... Trovata (forse) la causa del fallimento, si ricominciava il giro, coda, perforazione schede, controllo, coda al lettore, caricamento schede, coda alla stampante, uscita del tabulato, se ok bene, se no, meditazione, risoluzione e avanti così, fino a completare finalmente il lavoro con successo o ... chiudere la giornata con il proposito di venire un'altra volta. Magari in giorni e ore non troppo affollati!

L'ho fatta un po' lunga, mi rendo conto, ma è per dare l'idea di com'era praticare l'informatica mezzo secolo fa e capire quanto sia diverso ora che, con pochi clic su un personal computer o addirittura su un cellulare,  dove e quando vogliamo, possiamo interagire con elaboratori ben più potenti, connetterci al mondo, vivere esperienze virtuali  di ogni tipo...
Un'evoluzione sorprendente, stupefacente, che mi lascia senza fiato, specie se penso che, comunque, l'ho vissuta di persona, giorno per giorno, senza quasi accorgermene!